15.11.06

Le parole viaggiano

Leggo sull’ultimo Vanity Fair un bell’intervento di Franco Debenedetti a proposito dell’intenzione dell’onorevole Francesco Rutelli di revisionare nel profondo il linguaggio del proprio ministero e dei musei che amministra. Obiettivo: far piazza pulita degli anglicismi.
Rutelli ha ragione: l’italiano è forse il primo dei beni da proteggere e valorizzare, ma senza dimenticare che le parole viaggiano e che se dalla nostra lingua deriva il lessico “della finanza – banca, cassa, fattura; dell’architettura – balcone, cupola, duomo; della musica classica – adagio, allegro, presto”, per la stessa ragione abbiamo importato termini informatici come computer, software, mouse o altri – più lontani – come azzurro e algebra, un regalo degli Arabi.
E, allora, no alle parole che denotano un certo “servilismo culturale, come quelle che abbondano nella consulenza manageriale: job enrichment, quality control, packaging”, ma orecchie tese anche alle parole di Machiavelli: “Non si può trovare una sola lingua che parli ogni cosa per sé senza aver accattato da altri”.