6.2.07

Tacabanda

Il carnevale è nelle nostre menti sinonimo di colore, euforia, sregolatezza.
Per chi ha assistito almeno una volta al
Carnevale di Viareggio, poi,
ne incarnano alla perfezione lo spirito i carri, le costruzioni di cartapesta

che ritraggono il mondo dal punto di vista privilegiato dell’artista:
attento alle minuzie come alle grandiosità, l’occhio dei maestri carristi
ci restituisce la vita così com’è: variegata, tra meraviglia ed orrore.


A tale disincanto risponde la pietas, la consapevolezza
di esser “tutti in una bu’a” e –nonostante/per questo-
la ricerca della magia.
Già, perché a esser sempre e solo disincantati
si rimediano bei travasi di bile: meglio lasciarsi andare al sogno.
Ecco allora la fantasmagoria
-quanti piccini col naso per aria!- da assaggiare a strati,
come un millefoglie. Vuoi spensieratezza, disimpegno, gioia?

Ma poi c’è la parola.
E la parola, insieme ai mutandoni calati con cui sono ritratte le autorità di turno, ti porta qualche strato più giù o su.
Perché in questo caleidoscopio la parola si fa ancella dell’arguzia: la canti nelle canzonette carnascialesche, la leggi nei bozzetti degli artisti, la gusti nei titoli e nelle chiose che ti spiegano il perché di quella maschera, i passaggi tra la realizzazione e l’idea.

E la porti via con te,
a solleticare i pensieri.

Etichette: