La bambina che amava Tom Gordon
“Il mondo aveva i denti e in qualsiasi momento ti poteva morsicare.
Questo Trisha McFarland scoprì a nove anni.
Alle dieci di una mattina dei primi di giugno era sul sedile posteriore della Dodge Caravan di sua madre con addosso la sua maglietta dei Red Sox (quella che ha 36 GORDON sulla schiena), a giocare con Mona , la sua bambola.
Alle dieci e mezzo era persa nel bosco.
Alle undici cercava di non essere terrorizzata, cercava di non pensare:questa è una cosa seria, questa è una cosa molto seria. Cercava di non pensare che certe volte a perdersi nel bosco ci si poteva fare anche molto male. Certe volte si moriva.
Tutto perché avevo bisogno di fare pipì, pensò…”
In poco più di 10 righe è descritto tutto ciò che serve per inquadrare la scena, capire cosa sta succedendo e intuire quello che succederà, sentire cosa prova la piccola protagonista.
E’ l’inizio del libro “La bambina che amava Tom Gordon”, di Stephen King.
King è un genio. Lo scrittore vivente che ammiro di più.
Si, io, che scrivo favole e mi spavento per lo squalo del cartoon di Nemo, amo King.
Qualcuno lo ha definito "un’enorme macchina che aspira materiali diversi e anche molto eterogenei, e sputa fuori creazioni nuove. Prende fatti di cronaca, pezzi della storia politica del suo paese, oggetti della vita quotidiana semplici e banali come un hamburger McDonald, e li mescola con i Grandi Archetipi, le figure mitiche che stannoalla base della maggior parte delle storie dell’orrore moderne. Il risultato è che ciò che esce dalla cucina di King è un sapore che prima non c’era…e il cuoco, in questo caso, è un’enorme goloso egli stesso".
"Dentro ogni scrittore e lettore di storie che fanno paura c’è un bimbo che HA paura, e allo stesso tempo gode selvaggiamente nel fare il male, nel distruggere", dice King.
Noi siamo quello che scriviamo?
Io credo di si.
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