Scrivere non è sempre tradurre?
O meglio: comunicare, in genere, non è sempre tradurre dal linguaggio del mittente a quello del/i destinatario/i? Sì, dai, e non c'è bisogno di scomodare il professor De Mauro per spulciare le varie definizioni di tradurre.
Abbiamo sotto gli occhi migliaia di esempi. Per tutti: il caso Mastella. Leggiamo i titoli dei giornali e dei siti di questi giorni, dei vari schieramenti, e poi cucchiamoci il testo originale delle dimissioni: «Onorevoli colleghi, vi parlo col dolore nel cuore di chi sa che a causa del suo impegno pubblico, delle sue profonde convinzioni e delle sue idealità, si trova ad essere colpito negli affetti più profondi, incredulo ed impotente. Ho provato, ho creduto, ho sperato che la frattura tra politica e magistratura potesse essere ricomposta, attraverso la dialettica, il confronto, il dialogo, l’incontro. Ma devo prendere atto che nonostante abbia lavorato giorno e notte per dimostrare la mia credibilità e la mia buona fede... ... ... » basta basta per carità che mi viene l'ulcera (solo gli stomaci più forti possono sciropparsi tutto il testo nel blog di Mastella alla data 17 gennaio).
Il lavoro che ogni scrittore fa è portar fuori da sé i propri pensieri, e portarli oltre (trans-ducere), oltre le barriere che lo separano dai propri lettori.
Come? la cattiva fede? la mistificazione? la volontaria o involontaria, conscia o inconscia, reinterpretazione dei fatti? Beh, quella è un'altra storia. Che c'entra con Mastella?
Un simpatico esempio ne sono i testi delle offerte di lavoro: su Donna di Repubblica, un lettore ne ha dato un bel saggio in una lettera a Galimberti. La trovate nell'allegato.
Buone traduzioni.
/diniego.pdf
P.S. grazie a Giovanna per la segnalazione
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