Questo piccolo grande uomo
Mi sono meravigliata di non trovare on-line, ieri,
grandi attenzioni all’uomo Gandhi.
Il 30 gennaio di sessanta anni fa un fanatico
nazionalista indù, Nathuram Godse,
con tre colpi sparati a quei 49 chili d’uomo
pensò di aver fatto chissà che straordinaria azione
per il suo Dio: egli era tra chi riteneva inaccettabile
la riconciliazione coi musulmani, di cui Gandhi
era invece fautore.
L’energia delle parole di Gandhi,
così limpide nella sintonia col suo pensiero e le sue azioni,
fanno scrivere a Lord Mountbatten,
l’ultimo vicerè inglese a comandare l’esercito indiano:
«Nel Punjab ho 500 mila soldati,
eppure ci sono disordini gravi.
Nel Bengala le nostre forze sono fatte di un uomo solo,
e non ci sono disordini.
Gandhi ha ottenuto con la persuasione morale
ciò che quattro divisioni militari
non avrebbero ottenuto con la forza*».
Eppure sono vittorie effimere, perché la violenza
anche allora pare essere la moneta più spendibile.
Gandhi, oltretutto, sa bene cosa chiedere,
senza compromessi, senza trasformismi:
«Metto Delhi alla prova. Quali che siano
i massacri che avvengono nel resto dell’India o del Pakistan,
imploro il popolo della capitale di non lasciarsi fuorviare
dal suo dovere.
Anche se tutti gli indù e i sikh del Pakistan
dovessero essere sgozzati,
la vita del più miserabile bambino musulmano
che abita nel nostro paese deve essere salvata*».
Sul giornale estremista indù
il pacifismo gandhiano è incolpato di
«evirare la nazione*».
Leggo oggi sull’Ansa del silenzio riservato anche in patria
alle commemorazioni del padre della nazione indiana,
dell’artefice della nonviolenza, del Mahatma, grande anima.
Pare incredibile. Ma è facile guardarsi intorno,
e non meravigliarsi più.
* Le citazioni sono tratte dall’articolo di Federico Rampini
“Gandhi. La lezione che l’Occidente ignora”, «la Repubblica», 29/01/08, p.31
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