Tra i rami a rappellare, sull’albero delle fiabe
Uno dei libri più belli di Italo Calvino non è stato scritto da lui. Sono le Fiabe italiane. Calvino ha fatto un lavoro enorme e prezioso, ma le storie, quelle vengono da un altrove antico, diffuso e pieno di fascino. Dalle raccolte precedenti (di Gherardo Nerucci e di Giuseppe Pitrè per fare solo i due nomi principali) e prima ancora dalle voci di chi direttamente le raccontava (Agatuzza Messia, per dirne una, settantenne tata siciliana, analfabeta: una miniera di storie).
Le Fiabe italiane sono tre volumi. Anni fa li acquistai e ne lessi qualcuna qua e là a casaccio, sono 200. Ma erano anche altri tempi e soprattutto, che diamine, non avevo a chi narrarle queste fiabe. In questi giorni invece, spizzicando, mi leggo anche l’introduzione e soprattutto le note.
E godo.
Nell’introduzione trovo questo passaggio, che illumina e rinforza tutti i miei giochini di mescolar trame, far viaggiare i personaggi da un libro all’altro e nani strani, principesse grasse, principi calvi e chi più ne sa più ne ribalti.
Scrive Calvino: In tutto questo mi facevo forte del proverbio toscano caro al Nerucci, “La novella nun è bella se sopra non ci si rappella”, la novella vale per quel che su essa tesse e ritesse ogni volta chi la racconta, per quel tanto di nuovo che si aggiunge passando di bocca in bocca.
Nelle note poi c’è Calvino stesso che racconta il proprio lavoro. E soprattutto saltano fuori parentele e discendenze tra storia e storia: una specie di albero genealogico della Fantasia, con radici, tronco, foglie e gemme.
Così su un ramo trovi la Bella addormentata e i suoi figli, crudele seguito calabrese della più nota vicenda. Su un altro scopri che Cenerentola ha una cugina palermitana, che trova la sua fata in un ramo di gràttula, datteri.
Io ora sto su un altro ramo con Comare Giovannuzza, una volpe catanese furba come un gatto. Anche senza stivali.
Zio Burp
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