30.8.07

Monitoraggio dei siti istituzionali 2007: vince www.interno.it

Mettere al centro il cittadino. È stata questa la carta vincente del sito del Viminale, che si è aggiudicato così il primo posto nella ricerca condotta da un gruppo di lavoro dell'università di Udine, coordinato dal professor Francesco Pira.

“I contenuti hanno subito un processo di ristrutturazione completa, sia per il modo in cui sono organizzati, sia per il linguaggio
utilizzato", rendendo "l’insieme degli argomenti di facile lettura”.

È stato – udite, udite! - il grande lavoro di riscrittura delle pagine a cambiare completamente il modo di fruire gli stessi contenuti. A trasformare, per esempio, la sezione Come fare per "da aggregato burocratese di norme e regolamenti […] in vera risorsa per il cittadino in difficoltà”.

Pubblica Amministrazione cresce.

La parola cantinella

Ho conosciuto Andrea durante un allenamento,
ma scoprire il comune interesse per la parola è stato un attimo:
io che la insegno e scrivo, lui che la insegna e recita.

Il teatro è uno dei luoghi dove la parola esprime al meglio
la propria fascinazione,
e così mi ha incuriosito sentirlo parlare di “parola cantinella”,
un po’ perché ne ignoravo il significato in gergo teatrale,
un po’ perché in questo mio non sapere ho vissuto la formula
come riduttiva: d’un lampo ho visto la parola in cantina,
negletta, derisa, cenerentola.

Andrea chiarisce il significato di cantinella,
e spiega che dal suo punto di vista di regista e attore
le parole fan solo da puntello, supporto, sfondo al Gran Protagonista
che in teatro è il gesto.

E mi balzano agli occhi le percentuali di Mehrabian quando dice
che le sensazioni suscitate in un discorso pubblico
dipendono solo per il 7% dalle parole.
E mi sfrigola in mente Wittgenstein quando asserisce
che un testo è capito interamente solo dal suo autore.
E mi tonfa nello stomaco Borges e il suo/Marino.pdf
con quell’acre consapevolezza delle parole
-anche le più attente e precise-
distanti.

Pareri?
.

Etichette: , ,

27.8.07

Vaffa... sì, Azzeccagarbugli no!

Nonostante la Cassazione abbia deciso - come ricorda il post Schifo di Ale - che "vi sono talune parole e anche frasi che, pur rappresentative di concetti osceni o a carattere sessuale, sono diventate di uso comune ed hanno perso il loro carattere offensivo", dare dell'"azzeccagarbugli" o del "gaglioffo" a qualcuno è ancora diffamatorio.

Il primo sta infatti per "manigoldo, delinquente, avvezzo alla sopraffazione", mentre azzeccagarbugli - nonostante la derivazione colta (Manzoni, nei Promessi sposi) - resta, a distanza di più di un secolo, sinonimo di "operatore del diritto di scarsa levatura morale, imbroglione, propenso a difendere i forti contro i deboli".

Potenza della letteratura.

25.8.07

La vita è tutta un kit

S’intitola così l’articolo di Claudia Di Pasquale sul numero di "D-La Repubblica delle Donne" da oggi in edicola. Un’indagine a tutto campo sulle implicazioni psicologiche e sociali di una parolina tanto breve quanto potente.

Sono passati oltre 20 anni da quando il termine kit fece capolino in Italia, per i primi test di gravidanza e il set fai-da-te dei computer. Oggi, kit di tutti i tipi invadono uffici, famiglie, stanze dei bottoni e scatenano aspirazioni vecchie e nuove.
Secondo Francesco Taddeucci, direttore creativo di Saatchi&Saatchi, hanno successo perché permettono di recuperare una relazione intima con gli oggetti rimandando alla possibilità di creare, di costruirsi qualcosa da soli.
Nunzio La Fauci, linguista dell’università di Zurigo, mette però in guardia: “La parola, è vero, contiene in sé l’idea positiva del fai-da-te, ma il problema è che comunica un valore fasullo di libertà. Il kit trasforma il consumatore in servitore di sé stesso e dell’azienda che gli vende il prodotto”.

La verità, come sempre, sembra stare nel mezzo. Se è utile il kit per la raccolta differenziata, più di una perplessità lascia la recente iniziativa del sindaco di Milano: un kit antidroga per accertarsi se il proprio figlio faccia o meno uso di stupefacenti aiuterà a ricostruire un dialogo costruttivo?

24.8.07

Schifo

Tranquilli, non è il pensiero di riprendere il lavoro dopo una po' di ferie che mi fa titolare questo post (al contrario: godersi la vacanza e allo stesso tempo aver voglia di ricominciare è uno stato d'animo piacevole).
È semplicemente il titolo di un "Lapsus", la rubrica di Stefano Bartezzaghi su Repubblica, di qualche giorno fa.

Lo trascrivo tutto quanto qui, per diversi motivi. Perché è un pensiero che ho fatto anch'io, leggendo del momento più alto delle nostre cronache giudiziarie estive, ma ovviamente lui lo dice mille volte meglio. Perché ho una spiccata simpatia per la parolaccia detta nel modo giusto e al momento giusto. Perché un momento di ironia (e magari anche di autoironia) fa sempre bene alla salute. Perché è una netta smentita a quanto prédico da anni in aula, cioè che è meglio scrivere frasi brevi: la prima frase di Bartezzaghi misura 194 parole, ma non riesci mai a staccarti e te le cucchi tuttedunfiatounaperunafinoallafine. E poi perché davvero mi spiacerebbe perderlo, e se ce l'ho qui poi so che lo ritrovo.

E ben ritrovati anche voi!

***************

SCHIFO, di Stefano Bartezzaghi, su Repubblica del 6 agosto 2007

Caro cittadino a cui è occorso di dire “mi fai schifo” a una persona, e in conseguenza di questo ha subito un primo processo al termini del quale il giudice di merito l'ha assolta grazie al fatto che lei aveva usato la particella pronominale “mi”, a significare che la sua valutazione sulla schifosità del suo interlocutore non voleva essere di tipo oggettivo ma accettava persino sintatticamente lo statuto opinabile del parere soggettivo e perciò non costituiva un’offesa vera e propria, come sarebbe stato se avesse detto semplicemente “fai schifo” – o addirittura citando un’ormai antica canzone “tu fai schifo sempre” -, ma che essendo il presunto schifoso un reale pignolo è stato trascinato poi in Cassazione, come se l’ordinamento giudiziario non avesse di meglio su cui sentenziare, e lì si è visto ribaltare le sentenze assolutorie con conseguente rinvio a un nuovo processo d’appello che potrebbe finire anche con una condanna a una pena che in quel malaugurato caso dovrebbe essere di lieve entità ma che almeno sul piano morale dovrebbe pesarle – non si dice “dovrebbe farle schifo” per non far ripartire la giostra – ci permettiamo un suggerimento.
La prossima volta lo mandi affanculo. Proprio la Cassazione, e pochi giorni fa, ha stabilito che si può.

Etichette: , ,

21.8.07

Tempi di Attesa – LIMITI DI SOPPORTAZIONE

Segnalazione di cantiere, cartello con limite di sessanta. Non si vede anima viva. I trasportati sul sedile posteriore si lamentano: "Perché ci fermiamo?". "State buoni..." – raccomando senza convinzione. Quando finisce il cantiere, il cartello che segnala il termine del divieto si scorge a malapena, buttato negligentemente sul bordo della carreggiata, come per dire: "Se non lo vedi è meglio, così continui ad andare piano. Tanto fra un po' ti rallento di nuovo!". Due SUV che arrivano in massa lampeggiano nel retrovisore. Riprendere svelti fino a centotrenta a loro non basta: mi domando chi li ha inventati, quelli lì. Altro cantiere, altro limite di sessanta. C'è di più: arriva poco dopo un indicatore luminoso che scrive a chiare lettere: "Rallentare!". "Veramente ho già rallentato: a che velocità vuoi che vada adesso?". E così via (per modo di dire).

Mentre tento di raggiungere il traforo del Bianco, penso che i cantieri sulle autostrade delle vacanze estive sembrano i lassativi che una volta si prendevano il primo giorno di villeggiatura: assolutamente indispensabili per regolare il transito. Se i cantieri funzionano in senso inverso alle prugne cotte è perché noi automobilisti abbiamo già la tendenza a correre.

Al di là dei cantieri, il fatto che siamo un popolo sregolato non dovrebbe autorizzare l'uso di una segnaletica punitiva: se stiamo alle indicazioni di certi cartelli pare che dobbiamo vergognarci di aver pagato l'autostrada per fare più in fretta. E' come se ci fosse scritto: "Pensavi di andare spedito, o viandante frettoloso? Ti ricordo che chi va piano va sano e va lontano. Per castigo, fatti trenta sbadigli a sessanta all'ora! E senza strizzare gli occhi, per non perdere di vista l'asfalto. Via!".

Le pretese francamente eccessive che la segnaletica troppo spesso ci impone sono davvero sospette. Forse, come dicevo, vogliono attuare un progetto pedagogico di stampo calvinista che mira a redimere la massa dannata degli automobilisti? Oppure nascono semplicemente dall'idea che siamo tutti talmente indisciplinati da aver bisogno di minacce? Come dire: "Ti impongo più del necessario, perché so già che mi trufferai!" Il messaggio è letteralmente cifrato, eppure il suo significato è lampante. In base a questo discorso – ahinoi – gli indisciplinati irriducibili restano tali, mentre gli altri perdono progressivamente la fiducia nelle prescrizioni e soprattutto nelle autorità che le impongono. Su questa strada vale poco perfino la minaccia delle sanzioni.

Una buona relazione fra autorità civili e cittadini comporta fiducia e responsabilità da parte di entrambi. Riguardo ai limiti di velocità sulle strade, le autorità – loro per prime – dovrebbero ponderare seriamente le prescrizioni e confidare che saranno rispettate dagli automobilisti. Questi ultimi non potrebbero allora dubitare che i limiti imposti siano ben motivati e richiedano un rigoroso rispetto, affidato alla propria responsabilità, prima che al controllo elettronico. Le infrazioni che confermerebbero la buona regola comporterebbero a buon diritto le sanzioni. E queste, quando dovute, potrebbero essere applicate equamente, nonostante le spudorate mediazioni degli azzeccagarbugli.

Etichette: , ,

17.8.07

Caro diario (quattro letture e... il film)

Il titolo di questo post, oltre a essere uguale a quello di un "epico" film di Nanni Moretti ("VOI gridavate cose orrende e violentissime e VOI siete imbruttiti. IO gridavo cose giuste e ora sono uno splendido quarantenne."), è anche quello di un interessantissimo articolo sulle proprietà terapeutiche della scrittura pubblicato sul fascicolo attualmente in edicola di "Mente&Cervello" (agosto 2007, n. 32).

Per chi volesse cimentarsi nella lettura del lavoro originale del 1997 di James W. Pennebaker, lo psicologo che per primo ha affrontato in maniera sistematica l'argomento, eccolo: "Writing about emotional experiences as a therapeutic process" (PDF, 374 kB; naturalmente è in inglese).

Altrimenti si può sempre leggere la traduzione italiana del suo libro "Scrivi cosa ti dice il cuore" (Centro Studi Erickson, 2004). Dove, fra le altre cose, si scopre che per molte persone scrivere anche solo il diario della giornata ha un'ottima funzione di rilassamento e di scarico della tensione. Ma questo i "blogger" già lo sanno... come probabilmente lo sapeva Anne Frank, quando scriveva il suo "Diario".

PS Dimenticavo: ben ritrovati a tutti! ;)

14.8.07

Aplomb ferragostano

Sorrido nel leggere quanto accaduto in Costa Smeralda:
abbiam lasciato ieri un infuriato Willis al Billionaire,
e ritroviamo oggi un battagliero Zucchero che scansa bottiglie e limoni.
Quelli lanciati da certo pubblico esclusivo e benpagante
a Cala di Volpe.
Le versioni cartacea e on-line di «Repubblica» differiscono di poco
nel riportare alcuni epiteti rivolti alla platea.

Certo che il pubblico pimpante e ricercato non avrà gradito
tali corrive dimestichezze, e mica sorrido per quello.
Sorrido per i limoni e le bottiglie,
per quella marca di eleganza, l’aplomb: a piombo.
In picchiata, appunto.
.

Etichette: , ,

6.8.07

Tempi di Attesa – SANTI O DEVOTI?

Sono strategiche le edicole dei giornali vicino alle fermate dei mezzi pubblici, non solo perché nelle attese ti inducono all'acquisto, ma anche perché distraggono la tua attenzione dai ritardi, quelle rare volte che accadono. Gli edicolanti dovrebbero pretendere dall'azienda dei trasporti un contributo forfetario per la loro funzione sociale di contenimento degli improperi.

Lasciando vagabondare lo sguardo sugli svariati metri quadrati di carta stampata, mi sono accorto nei giorni scorsi di una nuova pubblicazione a fascicoli sugli oggetti devozionali della tradizione cristiana, che offre in allegato alcune fedeli riproduzioni di esemplari straordinari - per esempio di rosari - particolarmente pregiati perché appartenuti a persone dalla santità indiscussa:

http://www.hachette-fascicoli.it

E' curiosa questa rinnovata attenzione agli oggetti di devozione, in un mondo che, nonostante l'esponenziale aumento della popolazione, non sembra maggiormente affollato da santi rispetto ad epoche ritenute più fosche. Ma forse tra poco, anche per opera di un illuminato editore, potremo registrare un'inversione di tendenza, perfino nel popolo cristiano.

A dirla tutta è curiosa l'idea stessa di promuovere questo genere di devozione in ambito cristiano. La proposta evangelica, collegata con la millenaria tradizione profetica giudaica, è fondata sul concetto della grazia divina: il dono gratuito e totale di se stesso che Dio offre alle sue creature, proprio come un padre amorevole verso i propri figli. In base a questa premessa, il concetto di devozione comune a tutte le religioni assume un valore del tutto nuovo e l'idea di portare offerte alla divinità per ingraziarsela, come facevano i pagani, dovrebbe essere sradicata dalla mente di un cristiano, perché avvertita addirittura come un'offesa a Dio stesso. L'aspettativa di questo divino padre, o meglio la sua speranza, così come per ogni padre affettuoso, è solo quella di essere corrisposto nell'amore. Il suo sogno è che il suo dono gratuito si propaghi e si moltiplichi attraverso i pensieri e le opere amorevoli che i suoi figli rivolgono a tutte le sue creature e quindi a lui stesso.

Si capisce d'altra parte come, rispetto all'amore che per sua natura spera il totale coinvolgimento dell'amato nello stesso spirito di gratuità e di servizio, sia più rassicurante la falsa devozione delle offerte e delle pratiche a buon mercato, che illude di mantenere il controllo su se stessi, sul mondo, sugli altri e soprattutto permette di decidere quanto concedere a Dio, per impedire che il suo soffio riempia totalmente la nostra vita. Lo sappiamo che quello invocato nel Padre Nostro è l'autentico spirito di vita che ci affratella agli altri, ci mette in armonia con il mondo intero e, paradossalmente, rende divina e preziosa la nostra imperfezione di creature. Ma è pur vero che la nostra inerzia ci fa spesso preferire orizzonti più angusti.

Teologia a parte, la promozione devozionale di Hachette presenta purtroppo una lieve imperfezione, perché, se non ho capito male, offre anche la possibilità di acquistare una custodia per riporre i rosari da collezionare. E' un peccato questo gadget, perché potrebbe dissuadere molte persone dalla virtuosa consuetudine di appendere i rosari stessi allo specchietto retrovisore dell'auto: se invece li tenessimo così, a portata di mano, potremmo essere tentati dall'idea di sgranarli durante le code sempre più frequenti ed esasperanti. In questo modo non ingrosseremmo magari le schiere dei santi, ma forse ci risparmieremmo qualche incidente stradale.

Etichette: , ,